
Vada come vada ma che non vinca solo Loredana!
Ora mi rivolgo a voi cuginastri/e milanesi, nel caso dovessi tornare dalle vostre parti sapete consigliarmi un posto in centro dove si possa mangiare un trancio di pizza o un panino senza vendere un rene?
La Corte di Cassazione ha stabilito che un clandestino non può restare in Italia solo perché suo figlio frequenta la scuola. La tutela delle frontiere deve prevalere sul diritto del minore allo studio. Che dire? Comprendiamo tutto. L’applicazione rigorosa della legge e anche le reazioni di giubilo che si leggono sui blog: l’augurio è che i giubilanti siano altrettanto implacabili quando si discute di reati contro il patrimonio o di evasione fiscale. Però la comprensione si arresta davanti alla realtà della vita che, a differenza della legge, è fatta di carne. In questo caso della carne di un bambino. Il quale uscirà devastato da un’esperienza del genere, si sentirà assaggiato e sputato come una caramella guasta, quando in fondo la sua iscrizione a scuola era la prova migliore della volontà di integrarlo nella nostra comunità. Anche ammesso che la maggioranza dei clandestini siano così spietati da venire in Italia con un bimbo in età scolare solo per turlupinarci (ma ne avete parlato con la badante di vostra madre?), rimane il fatto incontrovertibile che quel bambino è un bambino. E che i diritti dell’infanzia, in una società che voglia distinguersi da un agglomerato di selvaggi, dovrebbero ancora significare qualcosa. E’ un pensiero buonista? No, è un pensiero umano. E mi rifiuto di credere che questi tempi spaventati ci abbiamo reso così insensibili da non cogliere la differenza. Da non capire più la semplice verità inculcata da generazioni di educatori: i bambini vengono prima.